Un ricordo della professoressa Caporossi.

Annamaria Caporossi Sono passati diciannove anni dal mio primo giorno di ginnasio. Era il secolo scorso, l'Unione sovietica occupava due pagine dell'atlante, internet ancora non esisteva. Di quel giorno ho un ricordo molto nitido. Vedo la disposizione dei banchi, i posti che occupavano i miei compagni, la luce ancora estiva che illuminava la classe. E ricordo l'ansia e l'inquietudine che provavo lì seduto in attesa che cominciasse la lezione.
I ragazzi di terza liceo con la barba, la mia scarsa conoscenza dell'analisi logica, il fatto che venivo da un paese ancora più piccolo e provinciale di Lovere: tutto mi metteva a disagio.

Poi la professoressa entrò - aveva un bracciale che tintinnava sulla cattedra quando compilava il registro. Si presentò e ci chiese di presentarci, parlò con entusiasmo del lavoro che avremmo fatto nel corso dell'anno e ci assegnò il primo esercizio: descrivete in poche righe il vostro diario e le ragioni per cui l'avete scelto. Il mio era un diario di colore giallo con i personaggi dei Peanuts. Perché l'avevo scelto? Forse perché in copertina c'era Linus che teneva stretta la sua "coperta di sicurezza" azzurra e questa immagine aveva per me qualcosa di rassicurante. Mi avrebbe aiutato, pensavo, ad affrontare il nuovo ambiente. Il diario era la mia coperta di sicurezza. Questo scrissi cercando di rendere interessante la descrizione di una cosa banale.

Come seconda attività la professoressa ci dettò una poesia in latino. Naturalmente nessuno di noi sapeva il latino, ma lo scopo era quello di individuare nel testo termini che facevano pensare a parole italiane.
Il primo verso diceva: "Ecce nive, ecce nive". Non era una poesia antica. Si trattava di versi scritti da un poeta contemporaneo, perché il latino, disse la professoressa, è una lingua che si scrive ancora oggi. In Finlandia si pubblica un giornale in latino, in Olanda si fanno concorsi di poesia in latino e i documenti del Vaticano sono scritti in questa lingua. E ci raccontò della difficoltà degli estensori dei documenti vaticani nel tradurre in latino i termini moderni. Non esisteva in latino una parola per indicare l'arma con cui Ali Agca aveva attentato alla vita del Papa. Come risolvere questo problema? Che perifrasi usare per descrivere la pistola? Questo e altro ci disse la professoressa durante la prima lezione di ginnasio.
Mentre ascoltavo le sue parole, l'ansia lasciava progressivamente il posto alla passione e all'entusiasmo per l'apprendimento. Allora non lo sapevo, ma c'erano già, in quella prima lezione, tutte le sue idee sulla didattica delle lingue classiche e, più in generale, sull'insegnamento.
La sua idea era che il greco antico e il latino per quanto lontane nel tempo e non più parlate sono lingue vive perché continuano a vivere nella nostra lingua e nella nostra cultura. Esse vanno quindi studiate non come relitti fossili, come lingue morte, ma come cose vive. Naturalmente c'erano aspetti noiosi necessari per acquisire la conoscenza: lo studio mnemonico delle declinazioni, dei paradigmi, dei significati della parole, ecc. Ma anche in questa fatica la professoressa cercava di mettere in luce il valore pedagogico: quanto maggiore lo sforzo tanto più grande la soddisfazione. Sei solo davanti a un testo che all'inizio ti sembra incomprensibile, cerchi di ricavarne il senso con gli strumenti che hai a disposizione. Il testo resiste, è difficile, quasi impenetrabile. Ci riprovi con metodo, affili i tuoi strumenti e comincia a sentire che il testo cede, si apre, svela quello che aveva da dire. E tu sei felice perché dal testo senti venire una voce che parla a te a distanza di secoli.

Anche nell'insegnamento della letteratura la professoressa aveva un metodo innovativo. Avevamo un grossa antologia che presentava i testi del XIX e XX secolo in ordine cronologico: da Foscolo fino a Umberto Eco. Cominciammo a leggere con la professoressa non la prima pagina del libro, ma l'ultima, quella scritta nella lingua più vicina alla nostra, e procedemmo scendendo anziché salendo lungo la cronologia. Leggemmo così tra le prime cose un capitolo de Il nome della rosa, un racconto di Calvino e una pagina straordinaria de Il maestro e Margherita, quella in cui Bulgakov racconta il mal di testa di Pilato. La lettura dei brani e il gusto per la letteratura che la professoressa trasmetteva mi davano subito voglia di leggere il libro per intero. Cosa che feci nei lunghi pomeriggi dopo la scuola anche a scapito dell'apprendimento mnemonico delle declinazioni e dei paradigmi.

La professoressa arrivava a scuola sempre con diversi quotidiani sotto il braccio. Ritagliava gli articoli che le sembravano interessanti e li appendeva nella bacheca della scuola, perché gli studenti li leggessero e ne parlassero. Anche in classe si leggevano articoli di giornale e la professoressa ci insegnava a discutere, a formulare un'opinione, a sostenerla con argomenti validi ed eventualmente ad abbandonarla, se si era rivelata infondata.

La professoressa organizzava visite a mostre e musei coinvolgendo gli studenti. Uno doveva chiamare l'agenzia dei pullman, un altro la biglietteria del museo, un altro ancora si occupava della raccolta dei soldi. Il sabato pomeriggio si andava a teatro, a Bergamo o a Milano. L'educazione non avveniva solo tra le mura del liceo. Ricordo una gita scolastica a Tarquinia, in quell'Etruria che la professoressa conosceva così bene, perché era la sua terra. Si scese nelle tombe affrescate con scene di banchetto, dove uomini bevevano vino, donne danzavano, giovinetti suonavano la lira. Quella catabasi mi aveva turbato. Ritornato in superficie chiesi alla professoressa: ma gli etruschi credevano davvero che la morte fosse una specie di festa?
Non disse né si né no. Ma sorrise. E il suo sorriso era identico a quello degli etruschi sugli affreschi di Tarquinia.

Pierluigi Lanfranchi
gennaio 2007